Il tuffo

Qualche tempo fa un mio amico molto intimo mi ha scritto una mail domandandomi il motivo per il quale avessi scelto di lasciare un lavoro sicuro in una ben nota compagnia petrolifera per imbarcarmi in un’avventura senza un progetto preciso, senza una meta e men che meno un’idea di ciò che avrei voluto fare.

Ad essere sincero la domanda mi ha inizialmente infastidito. Non sono portato a giustificare a nessuno le mie scelte, ho pensato.

In seguito, riflettendo più profondamente, ho concluso che quella mail fosse stato un invito a meditare sulla mia condizione attuale. Un invito a mettere per iscritto quei pensieri che hanno popolato la mia testa per lungo tempo e che mi hanno portato a scrivere queste righe affacciato davanti ad una finestra che dà sulla vallata adiacente alla città di Oaxaca, nel centro del Messico.

Credo di non poter individuare un istante preciso nel quale ho deciso che la vita dell’ingegnere che lavorava per un’azienda petrolifera non fosse il cammino che ero destinato a seguire.

Grazie a quel lavoro ho avuto la possibilità di vivere in luoghi nei quali molto probabilmente non avrei mai messo piede. Tre mesi trascorsi nella giungla del Congo francese o due anni vissuti nel deserto del Sahara sarebbero difficili da riassumere in poche parole.

Come complesso mi è spiegare ciò che ho appreso vivendo in megalopoli come Londra e Bangkok, passeggiando per le strade di Buenos Aires o per la favela di Rio de Janeiro piuttosto che per le strade di Sarajevo o di Berlino. O la gioia che ho provato immergendomi fino a quasi 40 metri nell’Oceano Indiano. Le sensazioni che ho provato mentre osservavo l’infinità della pianura del Serengeti cosparsa a perdita d’occhio da macchie nere : gnu in migrazione in cerca dell’acqua.

Quello che ho provato guardando gli occhi sorridenti e pieni di luce dei bambini che abitano a M’boku, un villaggio immerso nella foresta equatoriale del Congo francese è molto simile a ciò che ho pensato osservando la gente che vive sui binari morti adiacenti alle rotaie che portano da Bangkok verso il sud della Thailandia.

Ho visto tanta luce e tanta serenità nei loro sorrisi, nei loro gesti, nella loro spontaneità, nella loro semplicità.

Mentre negli occhi degli abitanti dei nostri stupendi paesi del primo mondo sviluppato, agiato, ricco, opulento, consumista, egoista ed ostentatore di agi e ricchezze, ho visto molto tristezza. Ho visto oscurità, buio pesto.

Vuoto. Un vuoto che ognuno di noi tenta di riempire comprandosi l’ultimo modello di smartphone piuttosto che le scarpe nuove. O l’auto nuova, o la barca. O la bottiglia di vino rosso da condividere con gli amici, in cui affogare la propria infelicità e dimenticarsi la propria situazione precaria di anima in cerca di sé stessa. Della propria missione.

tuffo

A questo punto qualcuno potrebbe pensare che io osservi il mondo con un occhio molto triste ed eccessivamente critico. Può darsi.

Viaggiare è stato l’investimento migliore che potessi fare nella mia vita.

La vita in sé è uno splendido viaggio, un continuo percorso tortuoso attraverso migliaia di prove, migliaia di ostacoli posti lì di fronte a noi per farci apprendere qualcosa, per farci riflettere sul significato della vita stessa.

Nel mio infinito viaggiare, nel mio peregrinare incessante, nel mio porre un piede dietro l’altro su questo sentiero chiamato vita, un giorno di marzo dello scorso anno mi sono trovato di fronte ad un bivio.

Da una parte si diramava un percorso chiaro, molto ben definito, una vita incanalata sul binario di una carriera lavorativa nel settore petrolifero, destinata a dare un contributo distruttivo a questo fantastico Pianeta che mi ospita e che ho avuto la fortuna di visitare in lungo ed in largo. Un futuro fatto di perforazioni, di inquinamento sostenibile e di efficienza migliorabile.

Dall’altra parte ho visto un sentiero sconosciuto, buio, ignoto e perciò affascinante.

Seduto su una spiaggia di Koh Phangan, ammirando una stupenda alba, mi sono alzato in piedi e ho immerso un piede nell’acqua tiepida del mare thailandese. Un respiro profondo. I polmoni si sono riempiti di aria, di vita.

Con molte incertezze, con mille dubbi, con la paura per un futuro incerto, con una certa dose di incoscienza ma con la sensazione di seguire una spinta proveniente dal fondo del cuore, da un luogo recondito all’interno o forse al di là del mio corpo fisico, mi sono immerso in acqua.

Un tuffo nell’ignoto. Un tuffo verso la libertà.

La Natura di Palenque

E’ l’imbrunire. Passeggio nella selva. Il rumore del ruscello che scorre da qualche parte, nascosto nella boscaglia, fa da sottofondo al frinire dei grilli. Ogni tanto un urlo di una scimmia o il verso di qualche uccello si intonano perfettamente alla vibrazione che si percepisce. Un assolo naturale, sincronizzato con il battito del cuore di Gaia. Attorno a questo intricato groviglio di piante tra le quali il mio pensiero vaga libero da ogni costrizione, circa 1500 anni fa,  una delle più grandi civiltà della storia era al suo culmine. La celeberrima civiltà maya. Con i suoi reggenti nominati non per discendenza ma perchè nati in un solstizio oppure in un equinozio. Oppure,meglio ancora, nato nel giorno dell’equinozio di primavera e storpio, come capito’ a K’inich Janaab’ Pakal, meglio conosciuto come Pakal il grande. Avere una gamba più corta dell’altra, come nel suo caso, era considerato un segno divino di buon auspicio. Pakal visse quasi ottant’anni, un’età considerevole per l’epoca, facendo costruire uno dei più grandi monumenti della città di Palenque per adibirlo a sua tomba. Allineò l’edificio in maniera tale che i corridoi interni che connettono il suo sacrario con quello della regina Roja con cui si sposo’ si orientassero perfettamente in direzione est ovest. Tutte le costruzioni di questo splendido villaggio immerso e per la maggior parte  inghiottito dalla selva, hanno una connessione con i cicli solari e con le fasi di rivoluzione di Venere. La numerologia la fa da padrona. Il numero tre rappresenta i tre mondi: quello degli umani, l’inframondo e il mondo dei morti. Il cinque si riferisce alle direzioni cardinali più il centro attorno a cui tutto ruota. Il numero sette e’associato agli dei dell’inframondo. Ora gli unici abitanti di questa città sono gli animali e le piante.

Palenque

 

Alberi che inesorabilmente hanno ricoperto le piramidi, manifestazioni di grandezza di piccoli uomini Maya che desideravano dimostrare la loro potenza ma che, per un divertente scherzo del destino, sono diventati le fondamenta di un mondo riconquistato dalla Natura. A ricordarci, come monito perenne per le generazioni presenti che si divertono a scattarsi fotografie ricordo arrampicandosi goffamente sugli alti scaloni dei pochi mausolei sottratti al ritorno della Natura, che l’uomo è uno dei tanti temporanei e perituri ospiti di questo magnifico Pianeta azzurro lanciato a migliaia di chilometri all’ora nel freddo e vuoto spazio.

 

E’ già notte. Seduto al tavolo di un ristorante immerso nella selva, ascolto distrattamente la musica che esce da gracchianti altoparlanti posti sul palco di fronte a me. Tutt’attorno, inesorabile, instancabile, inarrestabile, il canto dei grilli accompagna con la giusta vibrazione il suono del mio pensiero. Chiudo gli occhi e immagino la stessa notte di qualche secolo fa. Alla vigilia del solstizio d’estate, stava per nascere un bambino che negli anni a venire, da re, avrebbe deciso di costruire uno di quegli edifici che ora fanno da supporto a piante su cui cinguettano uccelli dai colori sgargianti e urlano branchi di scimmie. Che beffa per la grandezza di quel piccolo uomo.

Quanto è ironica nostra madre terra.

Grazie Pachamama per questi insegnamenti che riesci a trasmetterci attraverso messaggi sottili percepibili sedendosi all’ombra di una foresta di secolari ceibe.

Cavalcando verso San Juan Chamula

Il cavallo bianco che monto si chiama Palomo. Sembra che sia il più irrequieto ed indipendente dei cavalli del gruppo. Non a caso ha lo stesso carattere di chi lo monta.

 

I cowboys locali sono di poche parole. Quasi nemmeno ci spiegano cosa dobbiamo fare. Accanto a me una ragazza di Chihuahua, vestita di tutto punto come una cavallerizza che si rispetti, è la classica dimostrazione di come l’abito non faccia il monaco.

 

Si lamenta del fatto che il cavallo trotti, si muova verso l’erba ai lati della strada per mangiarla e non si preoccupa di chiedersi il motivo per cui le abbiano dato delle redini in mano. Inveisce chiedendo al cavallo di andare a sinistra e a destra, più piano o più veloce, non ricordandosi che l’uomo che sussurrava ai cavalli aveva sicuramente un’intesa maggiore con il mondo animale di una persona come lei, unicamente preoccupata di non spettinarsi o dei suoi occhiali da sole. Che più tardi le cadranno nel fango.

 

Tant’è. Il buon Palomo è più docile di quanto gli stallieri abbiano voluto farmi credere.

 

Cavalcare è stupendo. Cercare di stabilire un’intesa fatti di movimenti delle redini, di gentili calci con il tacco sul fianco sinistro del cavallo, di sussurri, sibili o fischiettii con una bestia tanto graziosa e docile quanto elegante e potente mi fa pensare al fatto che molti di noi, me compreso, siano in realtà disconnessi dalla Natura.

Oggigiorno siamo abituati ad interagire con macchine, computer, smartphones e molto meno con la gente, con gli animali, con le piante.

Ora che mi trovo immerso in una pineta di conifere, in sella ad un cavallo avviato a passo lento per un sentiero fangoso che si inerpica dolcemente, circondato da piante, da rovi, dal verde, mi sento riempito dall’energia di tutto ciò che mi circonda, mi sento connesso con la Natura, con la madre Terra, con la Pachamama che ci dà la vita e ci permette di continuare a vivere.

 

Uscendo dal sentiero entriamo a San Juan Chamula per una strada secondaria. I bambini che giocano ai lati della strada ci salutano sorridenti. Donne e ragazzine vestite di colori sgargianti portano al pascolo pecore che indossano museruole, immagino al fine di non far loro mangiare l’erba ai lati delle strade. Alcuni uomini lavorano i campi. Li saluto e rispondono sorridenti.

Come in Congo sei anni fa, vedo nei loro occhi una luce più luminosa di quella che sia riuscito a cogliere negli occhi di molte persone che ho conosciuto nel mondo cosiddetto sviluppato.

Queste persone che con grande dignità vivono vite difficili, questi bambini che sono costretti dalla vita a comportarsi come adulti, fanno da contro altare alla voce stridula della cavallerizza improvvisata che metaforicamente rappresenta tutte quelle persone che si sono dimenticate, o non hanno mai conosciuto, il contatto con la Natura.

Non voglio con queste parole erigermi a facile predicatore del ritorno alle origini. Sono il primo ad ammettere che sto apprendendo, o forse solo riscoprendo, la bellezza di sentirsi uniti ed in equilibrio con la Terra.

 

San Juan Chamula ci accoglie rumorosa e trasbordante di gente. Il mercato domenicale raccoglie tutti gli abitanti del luogo. Bambini che lucidano le scarpe, bambine che cercano di vendere piccoli animaletti intarsiati nel legno, donne che barattano verdure con polli svolazzanti, uomini che parlano con una cerveza in mano. Non ci sono turisti o forse ce ne sono così pochi che si confondono nello stupendo marasma di questo mercato.

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Entro nella chiesa evitando con un sorriso un’ondata di bambini che cercano di vendermi qualunque cosa.

Il pavimento è ricoperto di paglia. Ai lati della navata, statue di santi cristiani dallo sguardo piuttosto triste, osservano, ingabbiati in teche di vetro, i rituali svolti dai fedeli che, accovacciati a terra, pregano cantilene strazianti di fronte a file di candele accese.

Alcuni curanderos stanno praticando una limpia, una pulizia energetica con un mazzo di basilico con cui fendono l’aria attorno al corpo di una donna inginocchiata su un letto di paglia.

La sua faccia è segnata dalla sofferenza.

Poco lontano, un ragazzo si prostra continuamente di fronte alla statua di San Giovanni Battista urlando, con voce rotta dal pianto, cantilene alquanto incomprensibili.

Il dolore di queste persone si può percepire, si sente permeare l’aria. Stanno scaricando tutta la sofferenza, l’enorme frustrazione o il dolore che pervade le loro povere anime.

 

Esco rapidamente all’aria aperta. Mi guardo intorno, spaesato.

Questa breve visita è stata sufficiente per ricordarmi che la vita è composta da entrambe le facce della medaglia.

Senza il dolore non si potrebbe apprezzare la felicità.

Scaricare il dolore che inevitabilmente fa parte della vita di ognuno di noi, è necessario.

Anzi è, a mio modesto parere, doveroso. Affinchè esso non marchi indelebilmente a fuoco la nostra anima condannandola alla sofferenza continua. Lo si può e a mio avviso lo si deve fare attraverso un pianto liberatorio.

Ma anche attraverso una meditazione od una cerimonia di qualunque genere.

 

Perchè solo liberandosi da questo dolore che inevitabilmente appesantisce le nostre anime è possibile connettersi con il vero Sè, con chi siamo veramente.

Prima di preoccuparsi del fare dovremmo tutti preoccuparci dell’essere.

 

Nel giorno della festa del papà, mi piace pensare che questo messaggio mi sia stato consegnato da lui.

Mi piace immaginare che, per un giorno, Bruno sia stato l’autore di un altro, splendido episodio del film della mia vita.

 

A coloro che mi leggono

Da alcuni giorni sto guardando le statistiche del blog e vedo che c’è un certo circolo di aficionados che mi sta seguendo.

Fantastico su chi possano essere i lettori, perchè i contatti, oltre che dall’Italia, avvengono da altri Paesi del mondo che ospitano persone che ho incrociato nel viaggio della mia vita e che, evidentemente, sono felici di leggere i pensieri di un personaggio in cerca d’autore come il sottoscritto.

So che coloro che mi seguono potrebbero aver capito che ciò che esprimo è semplicemente un riflesso di quello che la mia anima sensibile ha visto durante un cammino divertente ed al contempo difficile chiamato vita.

Questo post, ed in generale questo blog, è dedicato a voi con cui ho avuto la fortuna di incrociare uno sguardo di profonda intesa. E’ dedicato a coloro i quali mai mi hanno giudicato ma semplicemente mi hanno accettato per quello che sono.

Le parole che riempiono queste immaginarie righe che si stanno lentamente creando sullo schermo del mio computer, stanno lì per essere ricevute dal cuore e dall’anima di chiunque stia leggendo.

parole

Queste poche parole dietro le quali si celano infiniti sentimenti ed emozioni, sono per me un modo di condividere con voi, chiunque voi siate, chiunque siano quei centomila, quell’uno o quel nessuno che le leggono, ciò che è racchiuso nel profondo della mia anima.

A voi dedico questo post scritto sorseggiando un caffè in una caffetteria di Chiapa de Corzo, in attesa di imbarcarmi per il mio viaggio, rigorosamente con biglietto di sola andata, all’interno del Chiapas.

Tutto ciò per dirvi che, se non mi leggerete più nei prossimi giorni, sarà perchè starò vivendo quelle emozioni che poi cercherò di far arrivare magicamente ai vostri cuori attraverso queste lettere che si stanno formando sullo schermo del mio computer.

A presto

 

Il primo temazcal

Clara è ritornata e la nostra avventura messicana ha inizio.

Non so cosa aspettarmi dalla spiritualità shamanica; la mia curiosità di scoprire il significato delle cerimonie, di vivere ciò che ho sentito unicamente attraverso le parole dalla mia amata Clara, è enorme.

La prima occasione che ci si presenta è di partecipare ad un temazcal, ovvero una capanna di sudore. Nella tradizione centro americana, questa è una cerimonia molto comune e dal fascino incredibile.

E’ un giorno di luna piena, quindi l’energia che si percepisce è molto più elevata di quanto lo potrebbe essere in un’altra occasione.

full moon

Sono l’unico uomo presente alla cerimonia. Purtroppo non molti maschi hanno un senso della spiritualità elevata come le donne, e la partecipazione maschile a queste cerimonie è molto limitata. Ci disponiamo in cerchio attorno al falò su cui sta armeggiando el hombre de fuego, mentre Carmela, la shamana che presiede la cerimonia, ci spiega alcune cose su come essa si svolgerà.

Ad ognuno vengono date delle foglie di tabacco secche, che dovremo sbriciolare lentamente nella nostra mano, pensando all’intenzione su cui vogliamo lavorare durante questo temazcal, ai blocchi energetici e psicologici di cui vogliamo liberarci, ai desideri che vorremo venissero esauditi, alle preghiere che vorremo fare per noi o per chi ci sta a cuore.

Dopo aver sbriciolato il tabacco, ad uno ad uno ci poniamo di fronte al fuoco.

Con la mano disegniamo nell’aria le quattro direzioni e successivamente un cerchio verso destra a simboleggiare la nostra parte maschile e uno verso sinistra per la nostra parte femminile; infine gettiamo il tabacco nel falò in modo che le nostre richieste diventino parte integrante della cerimonia e ci si possa lavorare sopra.

Nel falò, sotto la legna che sta bruciando, sono state poste le pietre vulcaniche che verranno poi inserite ad una ad una nella capanna di sudore e che stanno diventando incandescenti. Sono pietre laviche che vengono direttamente dal centro della Terra e perciò portatrici della conoscenza e dell’energia di nostra Madre Terra, la Pachamama.

Ognuno di noi, a turno, suona una canzone con un tamburo per incitare il fuoco a bruciare e a scaldare le pietre fino a quando saranno pronte per la cerimonia, caricate con l’energia vibrazionale di ognuno di noi.

Carmela decide che io, essendo l’unico uomo, dovrò posizionarmi nella capanna nel lato opposto rispetto a lei, per bilanciare l’energia all’interno del temazcal. E avrò il compito di lavorare sull’energia maschile, di tutti gli uomini, concentrandomi per liberare la negatività del controllo patriarcale e del controllo maschile sulla donna. Una bella responsabilità per il mio primo temazcal, non c’è che dire. Penso che sono abituato a questi compiti strani.

La capanna è piccola, angusta, costruita con sottili pali di legno e rivestita all’esterno da coperte di lana, che impediranno di far uscire il calore e il vapore che si sprigioneranno quando l’acqua sarà buttata sulle rocce incandescenti. Ad una ad una le donne davanti a me entrano nella capanna accovacciandosi, baciando il terreno e chiedendo il permesso di entrare.

Temazcal

É il mio turno. Entro nella capanna e mi posiziono esattamente dal lato opposto rispetto alla porticina d’ingresso, con le ginocchia rannicchiate per non infilare le gambe nel buco in cui dovranno essere poste le pietre. Quando tutti i partecipanti si sono seduti in cerchio nel temazcal, la shamana chiede all’hombre de fuego di far entrare la prima pietra. Con un forcone, l’aiutante arriva fino alla porta gridando :”Abuelita!” che in spagnolo è un vezzeggiativo per indicare la nonna.

E’ una forma di rispetto con cui ognuna delle pietre viene chiamata, per ribadire il concetto che è madre della nostra madre biologica siccome proviene dalle profonde viscere della Terra.

Noi all’interno rispondiamo “Bienvenida Abuelita!” cantandole una canzone di benvenuto.

Carmela, aiutandosi con dei rudimentali forconi in legno, ripone delicatamente la pietra nel buco e la dispone affinchè occupi il giusto spazio. Sette rocce entrano dalla prima porta, ognuna secondo il rituale descritto. Alla chiusura della porta con una coperta, iniziano i canti ritualisti diretti da Carmela che nel mentre versa acqua sulle pietre, facendo diventare la capanna una sorta di sauna.

Chiudo gli occhi e mi concentro sulla melodia, sulla vibrazione trasmessa dalla musica, sentendo che il calore e la partecipazione di tutte le persone presenti alla cerimonia sono uno stimolo fortissimo per liberare quei blocchi energetici e psicologici su cui ho deciso di lavorare .

Dopo tre canzoni Carmela decide che è giunto il momento di aprire nuovamente la porta per far entrare altre pietre. Gridiamo tutti assieme “Puerta!” e la coperta viene sollevata dall’esterno. L’hombre de fuego porge alla shamana la prima delle prossime sette pietre, che salutiamo come avevamo fatto precedentemente.

Questa volta ogni pietra viene sfregata con delle foglie di salvia, permeando di profumo tutta la capanna. Quando la coperta ci isola nuovamente dall’esterno, e in seguito al versamento dell’acqua sulle pietre, il caldo comincia a diventare intenso e si fa fatica a respirare, figuriamoci a cantare.

Sento il mio corpo scaricare molta negatività, resisto a fatica al calore, sudo copiosamente e inizio a soffrire la permanenza all’interno della capanna. Penso che è impegnativo resistere non potendosi accasciare a terra per evitare i vapori bollenti che si accumulano verso l’alto.

La porta si riapre e un po’ del calore se ne va, ma devono entrare ancora sette pietre e capisco che il calore si farà più intenso. Questa volta non tutti riescono ad intonare il canto di benvenuto per le abuelite; si vede che alcuni di noi sono già provati. Alla chiusura della terza porta e al versamento dell’acqua, il clima si fa soffocante. Non riesco a cantare, ma tento di seguire mentalmente il ritmo incalzante dei tamburi.

Sbuffo e ho la sensazione di liberare moltissime energie negative. Mi gira la testa, mi sembra di collassare. Devo resistere, so che posso farlo e che non devo temere di stare male.

Il mio corpo è provato. Il caldo è troppo soffocante. All’apertura della terza porta chiedo il permesso di uscire.

Mi accovaccio per passare a gattoni attraverso l’angusta porticina. Saluto la fresca aria dell’esterno con un sollievo notevole. Mi rialzo in piedi lentamente, tentando di non cadere nei tizzoni ardenti del falò che ancora brucia. Sono senza occhiali e devo raggiungere la doccia dall’altra parte del giardino.

Il getto d’acqua è così fresco che mi risveglia in maniera brusca. Sentire le gocce d’acqua fresca che picchiettano sopra il mio corpo è un sollievo incredibile. Passo cinque minuti buoni sotto questa pioggia rinfrescante, tentando di riprendermi dal colpo di calore subito. Cerco acqua da bere e ne ingurgito un litro tutto d’un fiato.

Mi sento un po’ meglio, ma mi gira ancora la testa.

Mi devo sforzare moltissimo per ricompormi e aggregarmi al circolo formato davanti al fuoco dagli altri partecipanti al temazcal. Carmela recita le ultime parole di commiato e alcune donne, a turno condividono la loro esperienza.

Non riesco nemmeno ad ascoltare.

Penso che per comprendere realmente il significato profondo di questo cerimoniale, dovrò farne altre.

L’atterraggio

“Gentili signore e signori, vi diamo il benvenuto all’aeroporto di Cancun, dove sono le 4 del pomeriggio. Augurandoci che abbiate volato in maniera confortevole…”

Grazie per augurartelo, mia cara, però come al solito ho volato scomodo. Del resto sono fuori misura per qualunque aereo.

E soprattutto non ho dormito. Ma ci sono abituato. Negli ultimi anni ho trascorso più notti insonni che notti tranquille.

Per svariati motivi. Perchè lavoravo e dovevo alzarmi presto, perchè quando non lavoravo facevo festa fino ad ore improponibili, perchè viaggiavo per il mondo ed i fusi orari non mi facevano capire più che ora fosse e soprattutto chi fossi.

O forse non dormivo bene perchè non ero felice? Perchè la mia anima non era ancora in pace e si dimenava dentro di me per farmelo capire? Era questo il motivo delle mie notti insonni?

Ho trascorso l’estate del 2013 dormendo poco: notti insonni passate tra un divano, un letto o una sedia posta di fronte ad un tavolo, cercando la migliore posizione per riposare la mia schiena per qualche ora. Ero quasi impossibilitato a muovermi a causa di un’ernia al disco.

Una malattia emozionale, che mi ero auto generato a causa dell’enorme stress che ho sempre amato mettermi addosso.

Nel caso dell’ernia al disco, la parola chiave è pressione.

La pressione che ho sentito dopo essermi licenziato, a livello di responsabilità familiari, finanziarie, di incertezza per un futuro tutto da creare. Una pressione auto generata e al contempo alimentata dalle persone con le quali mi circondavo. O meglio, che attraevo.

Da quando mio padre non c’è più, mi sento solo, senza appoggio, ad affrontare problemi che non sono esclusivamente miei, ad accudire persone che hanno già fatto la loro vita, a fare la parte di marito, di nipote e, quando riesco e se ci riesco, anche di figlio.

Un figlio che non può chiedere aiuto a nessuno, che deve dare risposte a tutti, che si deve occupare di tutto. Tutto insieme. Tutto troppo per uno come me.

Per uno spirito libero.

Amo osservare il mondo con la mia voglia di libertà.

Amo viaggiare leggero, con sulle spalle uno zaino che, durante il cammino, si riempie di emozioni, non di oggetti materiali.

Uno zaino che metaforicamente rappresenta la mia anima rinvigorita dai sorrisi di persone, dalle strette di mano di sconosciuti che diventeranno compagni di viaggio, camminatori che mi accompagneranno per un tratto più o meno lungo di questa mia vita frenetica, spesa sempre alla ricerca di qualcosa.

Su questo aereo che è appena atterrato mi sento solo. Molto solo.

E non voglio ammetterlo a me stesso.

Ho deciso di affrontare la vita da solo perchè ho difficoltà a poter condividere ciò che ho visto, ciò che ho provato, ciò che si è indelebilmente impresso nel profondo della mia anima.

O forse credo che sia così?

Troverò mai qualcuno che non mi faccia sentire solo?

Qualcuno con cui poter condividere tutto ciò che porto nel mio cuore?
Sarò capace di fare uscire queste emozioni per comunicarle, senza paura di essere costantemente giudicato, senza la sensazione di avere una figura severa che dall’alto del suo scranno, giudica la mia esistenza?

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Sono atterrato. E come previsto, l’atterraggio non è stato morbido.

Ora aspetto di volare nuovamente. Ma questa volta non sarà un volo fisico, bensì un volo spirituale.

In Messico. Paese di nuvole, per gente con la testa tra le nuvole.

Ma anche paese di favole. Di cuore. D’amore.

Esco dal terminal, prendo una boccata d’aria umida e calda.

Lo zaino e il trolley pesano di più quando l’afa è opprimente.

Salgo in auto. Un’ auto rossa. Come la mia prima auto in Italia, quando avevo diciotto anni.

Un’altra delle mie nuove vite sta cominciando. Sono emozionato. Eccitato. Ed anche un po’ impaurito.

Messico, sono arrivato. Sono pronto a tutto.

Non vedo l’ora di incontrare nuovamente la donna che amo.

O meglio che credo di amare.

Ma ora voglio solo riposare.

Buonanotte.

Tra le nuvole

L’aereo è zeppo di vacanzieri italiani che sicuramente trascorreranno le loro ferie in un sontuoso resort o in un hotel le cui vacanze sono decise dai venditori di tour organizzati. Tour de force, tour della confusione, tour per turisti.

Beati loro che non amano conoscere nulla di diverso da ciò che già migliaia di turisti conoscono.

 

Io sono un turista per caso. O forse non sono mai stato un turista bensì un viaggiatore.

 

Seduto al mio scomodo posto, con le gambe che non mi si infilano da nessuna parte, mi ritrovo a fantasticare su cosa scoprirò in questa nuova vita, cominciata, come tante altre nuove vite che ho iniziato, in settembre.

 

Settembre è il mese in cui sono venuto al mondo e in cui alcune volte, sono rinato.

 

La prima rinascita ha una data ed una destinazione precisa, settembre 2005 e Londra.

 

La seconda venuta al mondo – e Dio sa solo quanto sia stata una vera venuta al mondo – ha un’altra data ed un’altra destinazione precisa. Settembre 2010, Gili Trawangan, un’isola vicino all’isola di Bali.

 

La terza rinascita è qui, adesso: 26 settembre 2013, direzione Playa del Carmen, Caribe messicano.

 

O sarebbe meglio chiamarla con il suo nome, che scoprirò più tardi: Playa del Karma.

Il luogo dove il tuo karma si manifesta in forma palese. Il luogo dove la tua vita ti chiede di rendere conto di ciò che hai fatto fino ad ora.

Qui le emozioni fuoriescono in modo prepotente, lavate dall’acqua cristallina dei cenotes che popolano il sottosuolo della penisola yucateca.

L’acqua è il principio di vita femminile.

E’ l’essenza Yin, la parte fredda del sottile equilibrio presente in ognuno dei nostri corpi spirituali . Rappresenta le emozioni e spegne i fuochi dell’impeto maschile, della parte Yang.

Un’acqua che estingue i fuochi più impetuosi, trasformandoli in vapori i quali a loro volta formano le nubi.

Nubi tra le quali sto veleggiando ora e tra le quali la mia testa è sempre stata.

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Tra le prime due rinascite e questa c’è una grossa differenza.

 

Questa è una rinascita che desidero condividere con una donna. Una donna che credo di amare e con cui credo di poter costruire qualcosa.

Niente di più lontano dalla realtà. 

Per un motivo molto semplice.

Non mi amo. Perciò come potrei amare chicchessia?

Non mi conosco e nemmeno mi accetto.

Non ho accettato il passo nel vuoto che ho compiuto. Lasciare un lavoro sicuro per andare incontro all’ignoto.

Non credo in me stesso. Ovvero sono conscio di avere delle ottime qualità, ma ho paura ad esprimerle.
Mi sento bloccato, anche se il mio orgoglio non lo vuole riconoscere.

Come posso, in una situazione del genere, amare?

Tutt’al più posso ricevere amore, senza ovviamente valutarlo come tale.

Volando sopra le nuvole sull’Atlantico, penso ad altro. Sono ancora con la testa tra le nuvole, come sempre, come al solito.

Ma presto atterrerò. E non sarà un atterraggio lieve.

La partenza

Sono avvezzo agli aeroporti. Eppure questo viaggio verso il Caribe mi inquieta.

Sento che non è il solito viaggio. Quelli che ho intrapreso precedentemente avevano sempre una data di rientro. Si ritornava al lavoro, nel deserto.

Deserto come desertica era la mia vita, arida, spoglia, vuota. Piena solo di cifre da scrivere su un foglio excel, di ordini da dare.

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Sopravvivevo in un luogo dimenticato da Allah, nonostante che tutti attorno a me lo pregassero.

O forse non era dimenticato da Allah, era proprio riempito esclusivamente da questa divinità.

Un Dio egoista. Un Dio temuto da chi lo ha concepito così; che non perdona se non lo preghi almeno cinque volte al giorno. Un Dio che controlla, che vigila su anime sperdute ed intimorite. Quanta pena mi hanno fatto quei ragazzi obbligati a pregare per non essere rigettati da una cultura ottusa, nella quale, loro malgrado, sono cresciuti.

 

Ora non ho più lo spettro metaforico di un deserto obnubilante ad attendermi. Uno spettro sicuro, un incubo ricorrente a cui mi aggrappavo. Ho un foglio bianco davanti a me. Posso finalmente decidere cosa fare della mia vita. E sento di avere una paura tremenda.

Accanto a me il mio amato zaino, riempito con l’essenziale. Poche magliette, tre paia di scarpe. E alcuni degli oggetti che sento portarmi fortuna.

Come l’asciugamano con sopra stilizzata l’immagine della Thailandia, il paese che mi ha battezzato da viaggiatore zaino in spalla. O la maglietta gialla, con la frase “Can’t wait for the future”, comprata in un negozio vintage a Chicago. Una maglietta che, sotto sotto, simbolizza la mia impazienza per un futuro ignoto. E il mio desiderio di scoprirlo al più presto.

 

Come bagaglio a mano, un trolley scassato, che ha visto il deserto quante volte lo vidi io. Con sopra un simbolo sbiadito, quasi rimosso, dell’azienda per cui lavoravo. Un simbolo della mia vecchia vita da cui mi sto distaccando per sempre.

 

Nel profondo del mio cuore, so che questo è un viaggio di sola andata verso l’ignoto. Non so nulla di cosa mi aspetta e nemmeno so che cosa voglio dalla vita.

Non mi conosco e perciò non me lo sono mai chiesto.

Non so chi sono.

So che ho vissuto per essere accettato da una società a cui credevo di appartenere e che mi sforzavo di farmi piacere.

Poi ho viaggiato e nel viaggio ho iniziato a scoprirmi. Nel senso che mi sono messo a nudo ed ho capito che avevo solo recitato una parte. Una parte nel film della mia vita.

 

Ora, di fronte a questo banco del check in, con in mano un passaporto, sulla schiena il mio fedele amico zaino, accanto un trolley pieno di passato, respiro.

Respiro libertà.

Sto seguendo il cuore.

Finalmente.

Sto per scoprire chi sono.

 

Si parte.

 

 

 

Un blog per cosa? E scritto da chi?

Un blog per raccontare la mia vita. Perchè a quasi 35 anni, mi sono finalmente deciso a mettere per iscritto ciò che ho visto, le intense emozioni che ho provato in giro per il mondo. Per trasmettere a perfetti sconosciuti, che mi potrebbero leggere da qualunque parte nel mondo, il mio punto di vista su questo dono incredibile chiamato vita.

Scritto da chi?

Mi presento.

Per coloro che credono che una persona è definibile da ciò che fa o dai titoli – nobiliari o cartacei – , ecco la mia descrizione:

Sono un ingegnere chimico di quasi 35 anni, ho lavorato in alcuni paesi del mondo per un’azienda petrolifera fino a circa un anno fa; nel frattempo mi ero preso pure la briga di studiare un Master in Business & Administration tra Londra e Bangkok quando avevo 26 anni.

Ecco, questa è la descrizione che NON mi piace.

Quella che mi piace è questa.

Sono un camminante. Cammino sul sentiero della vita. Ogni giorno mi avvicino sempre di più a chi sono, lasciandomi alle spalle quel me che qualcuno avrebbe voluto che fossi.

Chi è quel qualcuno? La società occidentale, il pensiero isterico collettivo, i genitori, le aspettative del mondo pazzoide in cui noi tutti viviamo.

 

Sono in cerca della connessione con la mia anima, con la Verità, con l’Amore, con Dio, anzi, con la divinità.

 

Ho girato per questo strano pianeta in lungo e in largo, ho vissuto in posti assurdi, ho lavorato (poco) e studiato (molto), ho parlato tanto ed ascoltato forse meno di quello che avrei dovuto, ho conosciuto un’infinità di gente. Per poi capire che, chiunque guardassi negli occhi, chiunque conoscessi, era il giusto riflesso di chi ero in quell’istante della mia esistenza. Un riflesso della mia anima, una creazione perfetta del film della mia vita. Ho amato ogni fotogramma di quel film. Dal più amaro al più felice. Perchè, in fin dei conti, la vita è amara o dolce a seconda dello stato d’animo in cui la si guarda.

 

So poco della vita, però quel poco che so ho voglia di condividerlo con chi avrà il desiderio di leggermi.
Ho un sacco di episodi divertenti da raccontare che voglio compartire con chiunque abbia voglia di leggerli.

Non mi importa se sarete d’accordo o meno riguardo a quello che scrivo e alle conclusioni che traggo. Non cerco conferme o smentite ai miei pensieri. Non voglio piacere in particolare a nessuno di coloro che mi leggeranno.

 

Voglio solo dire la mia. Punto.

 

Buona lettura.

 

 

PS: Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale. Ovvero, se qualcuno di voi si ritrova nel personaggio…per lo meno ringraziatemi per aver cambiato il nome.