La selva Lacandona

Il fluire inesorabile del piccolo rio che scorre adiacente alla capanna di legno nella quale dormirò con Pedro, uno spagnolo conosciuto qualche ora prima sul pulmino che ci ha portati fino alla Selva Lacandona, si prefigura come la dolce ninna nanna di una notte breve, ma carica di energia positiva.

Sei persone riunite attorno ad un tavolo di un ristorante disperso in un paesino che sorge ai margini della selva. Sei anime in connessione tra di loro che hanno condiviso un piatto di quesadillas accompagnato da fagioli neri, cipolla, tortillas e riso in bianco. Tipica comida messicana.

Sono l’unico italiano, circondato da due madrileni, un catalano e una amorevole coppia di messicani di Saltillo. Per concludere la serata, che altrimenti ci costringerebbe a letto troppo presto, decidiamo di trasferirci a parlare sulla terrazza della camera dei messicani.

Di fronte a noi si staglia una oscurità riempita dal solo frinire dei grilli che avvolge tutta la selva circostante.

Tamara, la ragazza madrilena, mi racconta che lei ed il suo amico Eugenio proseguiranno il loro viaggio verso San Cristobal e da lì si dirigeranno a Oaxaca.

Inevitabile per me suggerire loro alcune cose da fare, specialmente a Oaxaca, luogo che ha visto il mio battesimo con l’ayahuasca, la pianta sacra dell’Amazzonia peruviana.

Sono passati ormai 7 mesi dalla mia prima cerimonia.

Che non è stata l’unica, perchè l’abuelita, come la chiamano gli indigeni della foresta peruviana, quando ti entra dentro è come se piantasse un seme destinato a germogliare nel tempo. Un seme che ha una coscienza propria. Un seme che per prima cosa si incarica di estirpare tutte le erbacce di cui è pieno il giardino della nostra psiche, del nostro cosciente e soprattutto del nostro subconscio.

L’abuelita agisce in maniera differente con ciascuno di noi. Normalmente la sua azione è gentile ma al contempo decisa e il suo effetto si fa magicamente sentire nel tempo, nei mesi a venire.

Il principio attivo dell’abuelita e’ il DMT, dimetiltriptamina, una sostanza secreta dalla ghiandola pineale, anche conosciuta come epifisi.

Questa sostanza è normalmente secreta nei nostri cervelli durante la fase REM del sonno e nelle ventiquattro ore successive alla nostra morte.

Questo blog non è pensato per essere lo spazio nel quale condividere tutto ciò che ho imparato attraverso la sperimentazione, la lettura, la ricerca e l’introspezione profonda nella quale mi sono immerso da quando ho messo piede in Messico e sono diventato uno psiconauta curioso di sperimentare nuove sensazioni e privazioni dei sensi tali da sentirmi fisicamente proiettato in mondi paralleli fatti di sogni, ma non di allucinazioni. Fatti più di amore che di psichedelia, perché per me l’esperienza con l’abuelita è sempre stata un cerimoniale seguito passo passo, in religioso silenzio ed in fede nei confronti e per rispetto per la tradizione millenaria dell’uso della pianta. Una pianta sacra che dà visioni e aiuta la psiche va rispettata come, scusate il paragone, un rito di preghiera nelle nostre chiese.

Per rispetto a me stesso, nei confronti delle persone che ho incrociato e che mi hanno aiutato durante questo meraviglioso cammino di riconnessione con la mia anima e nei confronti della sacralità delle cerimonie a cui ho partecipato, mi riservo di descrivere queste esperienze in un momento diverso.

In questo spazio virtuale voglio solo accendere un po’ di curiosità in chi, come me fino a pochi anni fa era totalmente all’oscuro ed alquanto scettico riguardo agli aspetti più profondi di quella creazione della nostra mente che amiamo chiamare realtà.

Ma che io adoro chiamare illusione.

Una illusione sorprendente.

Al termine della conversazione con i miei estemporanei compagni di viaggio, adagiato sul letto, mi soffermo a riflettere.

Avrò fatto bene a raccontare in termini così entusiastici la mia esperienza con l’abuelita?

In fin dei conti credo di sì.

Non sarei chi sono in questo momento senza quelle cerimonie a cui ho partecipato ma allo stesso tempo credo che esse siano state soltanto un mezzo, stupendo, divertente e per certi versi magico, per darmi un’idea un po’ più chiara di chi sono veramente.

Che è molto differente dall’illusoria maniera in cui appaio all’occhio di un qualunque osservatore esterno.

Il fluire del torrente è la perfetta sinfonia capace di cullare la mia anima fino a raggiungere un sonno ristoratore; ma anche la metafora più evidente di una vita che scorre imperterrita e che lentamente scava un solco nella dura roccia della ordinaria realtà.

O della straordinaria illusione.

La ricerca della felicità

Dove dovrebbe iniziare la ricerca della felicità?

Dalla nascita?

Da un evento che ti cambia radicalmente la vita?

Dalla maturità reale e vera di una persona, ammesso che essa avvenga in tempi sufficientemente ristretti?

Quel giorno di gennaio avevo 32 anni ed un gran bel lavoro in una multinazionale tra le più grandi del mondo. Ma ero profondamente infelice. Così triste da non riuscire a guardarmi allo specchio la mattina prima di andare al lavoro senza farmi schifo. Ribrezzo. Odio misto al rancore per la mancanza di coraggio che mi impediva di andarmene da lì, nonostante il buonuscita e le finanze casalinghe a posto.

Odiavo ciò che facevo e come lo facevo. Odiavo il laisse faire e la tristezza con cui le persone con le quali lavoravo non riuscivano ad andare oltre al fatto che quello che stessimo compiendo non era solo dovere, ma un atto di distruzione nei confronti del pianeta Terra. Mentre la policy aziendale diceva “la ricerca di oggi formerà lo splendido futuro di un mondo migliore in cui robot e uomini saranno in equilibrio col pianeta”

Rileggevo spesso quelle righe perché, guardandomi attorno vedevo solo gente intenta a portarsi a casa lo stipendio e a fottersene del futuro migliore per i loro figli e nipoti. Che schifo mi facevano. Che schifo mi fanno ancora.

C’ho messo un anno e mezzo a convincere me e la mia famiglia che lasciare quel porto sicuro, quel lavoro da pensionato felice, sarebbe stata la più grande scommessa e la migliore scelta della mia vita.

Il più grande salto nel vuoto ma al contempo la migliore delle scelte, come vedrete seguendo la mia storia.

Mi presento, sono Raphael, ho 40 anni e credo di aver raggiunto un buon grado di felicità.

Ma vi voglio tediare ancora un pochino raccontandovi la mia storia per capire quanto ci ho messo ad essere felice.

Per coloro che credono che una persona è definibile da ciò che fa o dai titoli – nobiliari o cartacei – ecco la mia descrizione:

sono un ingegnere chimico di quasi 40 anni, ho lavorato in alcuni paesi del mondo per un’azienda petrolifera fino a circa 7 anni fa; nel frattempo mi ero preso pure la briga di studiare un Master in Business & Administration tra Londra e Bangkok, quando avevo 26 anni.

Ecco, questa è la descrizione che NON mi piace o che mi definisce solo a livello curricolare.

Quella che mi piace è questa.

Sono un camminante. Camminando un cammino di stelle. E le luci che incontro sono le anime che conosco sul mio cammino e che ammiro attraverso il percorso della mia via.

Camminando e danzando insieme a loro ho imparato i mille modi di vivere della gente e di ognuno di loro ho un ricordo indelebile che va al di là della percezione dei 5 sensi umani.

Cammino sul sentiero della vita. Ogni giorno mi avvicino sempre di più a chi sono, lasciandomi alle spalle quel “me” che qualcuno avrebbe voluto che fossi.

Chi è, o meglio, chi sono, quel o quei qualcuno? La società occidentale, il pensiero isterico collettivo, i genitori, le aspettative del mondo pazzoide in cui noi tutti viviamo.

Sono in cerca della connessione con la mia anima, con la Verità, con l’Amore, con Dio, con me stesso.

Ho girato per questo strano Pianeta in lungo e in largo, ho vissuto in posti che la maggior parte di voi considererebbe assurdi, ho lavorato (poco) e studiato (molto), ho parlato tanto ed ascoltato forse meno di quello che avrei dovuto, ho conosciuto un’infinità di gente.

Per poi capire che, chiunque guardassi negli occhi, chiunque conoscessi, era il giusto riflesso di chi ero in quell’istante della mia esistenza.

Un riflesso della mia anima, una creazione perfetta del film della mia vita.

Ho amato ogni fotogramma di quel film. Dal più amaro al più felice. Dal più vivido al più sbiadito.

Perchè, in fin dei conti, la vita è amara o dolce a seconda dello stato d’animo con cui la si guarda.

So poco della vita, quel poco che si sa a 40 anni, però quel poco che so ho voglia di condividerlo con chi avrà il desiderio di leggermi.

Ho un sacco di episodi divertenti da raccontare che voglio raccontare a chiunque abbia voglia di leggerli.

Non mi importa se sarete d’accordo o meno riguardo a quello che scrivo e alle conclusioni che ne trarrò. Non cerco conferme o smentite ai miei pensieri. Non voglio piacere in particolare a nessuno di coloro che mi leggeranno.

Voglio solo dire la mia, con riguardo e stima per l’opinione altrui.

PS: Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

Il significato del viaggio

Zaino in spalla.

Dieci chili o poco più.

Ai piedi scarpe da ginnastica consunte.

Un biglietto aereo di sola andata.

Un itinerario definito a grandi linee.

Hotel prenotato solo per la prima notte.

Un buon libro a farmi compagnia durante i trasferimenti o le attese.

Una macchina fotografica.

 

backpacker

 

La voglia di esplorare.

Il desiderio di scoprire.

La curiosità infantile.

Lo stupore della prima volta.

La consapevolezza che la realtà è parte di un grande sogno.

 

Svegliarsi all’alba e passeggiare per le strade deserte di una città sconosciuta.

Andare a dormire ammirando la luna piena che si staglia su un cielo limpido.

Sporcarsi tutti i vestiti e non avere più nulla da indossare.

Offrire un caffè ad una persona incontrata qualche minuto prima.

Ricevere un sorriso da uno sconosciuto.

Parlare di politica mangiando un tacos unto di grasso.

Disquisire sull’essenza effimera della vita con una donna madrilena, ex guardiana di un faro sulle coste marocchine.

Non pensare a nulla, seduto su un’amaca, intento ad ammirare un prato pieno di lucciole.

Guardarsi allo specchio negli occhi di uno sconosciuto.

Meditare, immerso in un ruscello nella selva.

Chiedersi: “Chi sono?” in cima ad un monte, con il viso sferzato dal vento.

Capire che bisogna darsi tempo per ricevere la risposta.

Essere consci che quella è l’unica vera domanda che ognuno di noi dovrebbe farsi.

Ricevere la risposta leggendo una frase di un libro preso casualmente in mano in una libreria.

Meditare sulla risposta ricevuta, guardando da un finestrino di un autobus un panorama in continuo movimento.

Essere conscio del divenire.

Sentirsi amato da chi ho conosciuto da pochi giorni.

Amare chiunque incontri.

Essere parte di tutto.

 

Il viaggio in solitaria può essere noioso.

Può essere ricco di stimoli.

Può lasciare l’amaro in bocca.

Può farti sorridere nei momenti più inaspettati.

O piangere improvvisamente.

Ha molti bivi.

Pretende che tu scelga.

Che tu sia sveglio.

Che tu sia attivo.

Che tu sia vivo.

 

Viaggio da solo.

E amo farlo.

La Natura di Palenque

E’ l’imbrunire. Passeggio nella selva. Il rumore del ruscello che scorre da qualche parte, nascosto nella boscaglia, fa da sottofondo al frinire dei grilli. Ogni tanto un urlo di una scimmia o il verso di qualche uccello si intonano perfettamente alla vibrazione che si percepisce. Un assolo naturale, sincronizzato con il battito del cuore di Gaia. Attorno a questo intricato groviglio di piante tra le quali il mio pensiero vaga libero da ogni costrizione, circa 1500 anni fa,  una delle più grandi civiltà della storia era al suo culmine. La celeberrima civiltà maya. Con i suoi reggenti nominati non per discendenza ma perchè nati in un solstizio oppure in un equinozio. Oppure,meglio ancora, nato nel giorno dell’equinozio di primavera e storpio, come capito’ a K’inich Janaab’ Pakal, meglio conosciuto come Pakal il grande. Avere una gamba più corta dell’altra, come nel suo caso, era considerato un segno divino di buon auspicio. Pakal visse quasi ottant’anni, un’età considerevole per l’epoca, facendo costruire uno dei più grandi monumenti della città di Palenque per adibirlo a sua tomba. Allineò l’edificio in maniera tale che i corridoi interni che connettono il suo sacrario con quello della regina Roja con cui si sposo’ si orientassero perfettamente in direzione est ovest. Tutte le costruzioni di questo splendido villaggio immerso e per la maggior parte  inghiottito dalla selva, hanno una connessione con i cicli solari e con le fasi di rivoluzione di Venere. La numerologia la fa da padrona. Il numero tre rappresenta i tre mondi: quello degli umani, l’inframondo e il mondo dei morti. Il cinque si riferisce alle direzioni cardinali più il centro attorno a cui tutto ruota. Il numero sette e’associato agli dei dell’inframondo. Ora gli unici abitanti di questa città sono gli animali e le piante.

Palenque

 

Alberi che inesorabilmente hanno ricoperto le piramidi, manifestazioni di grandezza di piccoli uomini Maya che desideravano dimostrare la loro potenza ma che, per un divertente scherzo del destino, sono diventati le fondamenta di un mondo riconquistato dalla Natura. A ricordarci, come monito perenne per le generazioni presenti che si divertono a scattarsi fotografie ricordo arrampicandosi goffamente sugli alti scaloni dei pochi mausolei sottratti al ritorno della Natura, che l’uomo è uno dei tanti temporanei e perituri ospiti di questo magnifico Pianeta azzurro lanciato a migliaia di chilometri all’ora nel freddo e vuoto spazio.

 

E’ già notte. Seduto al tavolo di un ristorante immerso nella selva, ascolto distrattamente la musica che esce da gracchianti altoparlanti posti sul palco di fronte a me. Tutt’attorno, inesorabile, instancabile, inarrestabile, il canto dei grilli accompagna con la giusta vibrazione il suono del mio pensiero. Chiudo gli occhi e immagino la stessa notte di qualche secolo fa. Alla vigilia del solstizio d’estate, stava per nascere un bambino che negli anni a venire, da re, avrebbe deciso di costruire uno di quegli edifici che ora fanno da supporto a piante su cui cinguettano uccelli dai colori sgargianti e urlano branchi di scimmie. Che beffa per la grandezza di quel piccolo uomo.

Quanto è ironica nostra madre terra.

Grazie Pachamama per questi insegnamenti che riesci a trasmetterci attraverso messaggi sottili percepibili sedendosi all’ombra di una foresta di secolari ceibe.

Cavalcando verso San Juan Chamula

Il cavallo bianco che monto si chiama Palomo. Sembra che sia il più irrequieto ed indipendente dei cavalli del gruppo. Non a caso ha lo stesso carattere di chi lo monta.

 

I cowboys locali sono di poche parole. Quasi nemmeno ci spiegano cosa dobbiamo fare. Accanto a me una ragazza di Chihuahua, vestita di tutto punto come una cavallerizza che si rispetti, è la classica dimostrazione di come l’abito non faccia il monaco.

 

Si lamenta del fatto che il cavallo trotti, si muova verso l’erba ai lati della strada per mangiarla e non si preoccupa di chiedersi il motivo per cui le abbiano dato delle redini in mano. Inveisce chiedendo al cavallo di andare a sinistra e a destra, più piano o più veloce, non ricordandosi che l’uomo che sussurrava ai cavalli aveva sicuramente un’intesa maggiore con il mondo animale di una persona come lei, unicamente preoccupata di non spettinarsi o dei suoi occhiali da sole. Che più tardi le cadranno nel fango.

 

Tant’è. Il buon Palomo è più docile di quanto gli stallieri abbiano voluto farmi credere.

 

Cavalcare è stupendo. Cercare di stabilire un’intesa fatti di movimenti delle redini, di gentili calci con il tacco sul fianco sinistro del cavallo, di sussurri, sibili o fischiettii con una bestia tanto graziosa e docile quanto elegante e potente mi fa pensare al fatto che molti di noi, me compreso, siano in realtà disconnessi dalla Natura.

Oggigiorno siamo abituati ad interagire con macchine, computer, smartphones e molto meno con la gente, con gli animali, con le piante.

Ora che mi trovo immerso in una pineta di conifere, in sella ad un cavallo avviato a passo lento per un sentiero fangoso che si inerpica dolcemente, circondato da piante, da rovi, dal verde, mi sento riempito dall’energia di tutto ciò che mi circonda, mi sento connesso con la Natura, con la madre Terra, con la Pachamama che ci dà la vita e ci permette di continuare a vivere.

 

Uscendo dal sentiero entriamo a San Juan Chamula per una strada secondaria. I bambini che giocano ai lati della strada ci salutano sorridenti. Donne e ragazzine vestite di colori sgargianti portano al pascolo pecore che indossano museruole, immagino al fine di non far loro mangiare l’erba ai lati delle strade. Alcuni uomini lavorano i campi. Li saluto e rispondono sorridenti.

Come in Congo sei anni fa, vedo nei loro occhi una luce più luminosa di quella che sia riuscito a cogliere negli occhi di molte persone che ho conosciuto nel mondo cosiddetto sviluppato.

Queste persone che con grande dignità vivono vite difficili, questi bambini che sono costretti dalla vita a comportarsi come adulti, fanno da contro altare alla voce stridula della cavallerizza improvvisata che metaforicamente rappresenta tutte quelle persone che si sono dimenticate, o non hanno mai conosciuto, il contatto con la Natura.

Non voglio con queste parole erigermi a facile predicatore del ritorno alle origini. Sono il primo ad ammettere che sto apprendendo, o forse solo riscoprendo, la bellezza di sentirsi uniti ed in equilibrio con la Terra.

 

San Juan Chamula ci accoglie rumorosa e trasbordante di gente. Il mercato domenicale raccoglie tutti gli abitanti del luogo. Bambini che lucidano le scarpe, bambine che cercano di vendere piccoli animaletti intarsiati nel legno, donne che barattano verdure con polli svolazzanti, uomini che parlano con una cerveza in mano. Non ci sono turisti o forse ce ne sono così pochi che si confondono nello stupendo marasma di questo mercato.

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Entro nella chiesa evitando con un sorriso un’ondata di bambini che cercano di vendermi qualunque cosa.

Il pavimento è ricoperto di paglia. Ai lati della navata, statue di santi cristiani dallo sguardo piuttosto triste, osservano, ingabbiati in teche di vetro, i rituali svolti dai fedeli che, accovacciati a terra, pregano cantilene strazianti di fronte a file di candele accese.

Alcuni curanderos stanno praticando una limpia, una pulizia energetica con un mazzo di basilico con cui fendono l’aria attorno al corpo di una donna inginocchiata su un letto di paglia.

La sua faccia è segnata dalla sofferenza.

Poco lontano, un ragazzo si prostra continuamente di fronte alla statua di San Giovanni Battista urlando, con voce rotta dal pianto, cantilene alquanto incomprensibili.

Il dolore di queste persone si può percepire, si sente permeare l’aria. Stanno scaricando tutta la sofferenza, l’enorme frustrazione o il dolore che pervade le loro povere anime.

 

Esco rapidamente all’aria aperta. Mi guardo intorno, spaesato.

Questa breve visita è stata sufficiente per ricordarmi che la vita è composta da entrambe le facce della medaglia.

Senza il dolore non si potrebbe apprezzare la felicità.

Scaricare il dolore che inevitabilmente fa parte della vita di ognuno di noi, è necessario.

Anzi è, a mio modesto parere, doveroso. Affinchè esso non marchi indelebilmente a fuoco la nostra anima condannandola alla sofferenza continua. Lo si può e a mio avviso lo si deve fare attraverso un pianto liberatorio.

Ma anche attraverso una meditazione od una cerimonia di qualunque genere.

 

Perchè solo liberandosi da questo dolore che inevitabilmente appesantisce le nostre anime è possibile connettersi con il vero Sè, con chi siamo veramente.

Prima di preoccuparsi del fare dovremmo tutti preoccuparci dell’essere.

 

Nel giorno della festa del papà, mi piace pensare che questo messaggio mi sia stato consegnato da lui.

Mi piace immaginare che, per un giorno, Bruno sia stato l’autore di un altro, splendido episodio del film della mia vita.