La selva Lacandona

Il fluire inesorabile del piccolo rio che scorre adiacente alla capanna di legno nella quale dormirò con Pedro, uno spagnolo conosciuto qualche ora prima sul pulmino che ci ha portati fino alla Selva Lacandona, si prefigura come la dolce ninna nanna di una notte breve, ma carica di energia positiva.

Sei persone riunite attorno ad un tavolo di un ristorante disperso in un paesino che sorge ai margini della selva. Sei anime in connessione tra di loro che hanno condiviso un piatto di quesadillas accompagnato da fagioli neri, cipolla, tortillas e riso in bianco. Tipica comida messicana.

Sono l’unico italiano, circondato da due madrileni, un catalano e una amorevole coppia di messicani di Saltillo. Per concludere la serata, che altrimenti ci costringerebbe a letto troppo presto, decidiamo di trasferirci a parlare sulla terrazza della camera dei messicani.

Di fronte a noi si staglia una oscurità riempita dal solo frinire dei grilli che avvolge tutta la selva circostante.

Tamara, la ragazza madrilena, mi racconta che lei ed il suo amico Eugenio proseguiranno il loro viaggio verso San Cristobal e da lì si dirigeranno a Oaxaca.

Inevitabile per me suggerire loro alcune cose da fare, specialmente a Oaxaca, luogo che ha visto il mio battesimo con l’ayahuasca, la pianta sacra dell’Amazzonia peruviana.

Sono passati ormai 7 mesi dalla mia prima cerimonia.

Che non è stata l’unica, perchè l’abuelita, come la chiamano gli indigeni della foresta peruviana, quando ti entra dentro è come se piantasse un seme destinato a germogliare nel tempo. Un seme che ha una coscienza propria. Un seme che per prima cosa si incarica di estirpare tutte le erbacce di cui è pieno il giardino della nostra psiche, del nostro cosciente e soprattutto del nostro subconscio.

L’abuelita agisce in maniera differente con ciascuno di noi. Normalmente la sua azione è gentile ma al contempo decisa e il suo effetto si fa magicamente sentire nel tempo, nei mesi a venire.

Il principio attivo dell’abuelita e’ il DMT, dimetiltriptamina, una sostanza secreta dalla ghiandola pineale, anche conosciuta come epifisi.

Questa sostanza è normalmente secreta nei nostri cervelli durante la fase REM del sonno e nelle ventiquattro ore successive alla nostra morte.

Questo blog non è pensato per essere lo spazio nel quale condividere tutto ciò che ho imparato attraverso la sperimentazione, la lettura, la ricerca e l’introspezione profonda nella quale mi sono immerso da quando ho messo piede in Messico e sono diventato uno psiconauta curioso di sperimentare nuove sensazioni e privazioni dei sensi tali da sentirmi fisicamente proiettato in mondi paralleli fatti di sogni, ma non di allucinazioni. Fatti più di amore che di psichedelia, perché per me l’esperienza con l’abuelita è sempre stata un cerimoniale seguito passo passo, in religioso silenzio ed in fede nei confronti e per rispetto per la tradizione millenaria dell’uso della pianta. Una pianta sacra che dà visioni e aiuta la psiche va rispettata come, scusate il paragone, un rito di preghiera nelle nostre chiese.

Per rispetto a me stesso, nei confronti delle persone che ho incrociato e che mi hanno aiutato durante questo meraviglioso cammino di riconnessione con la mia anima e nei confronti della sacralità delle cerimonie a cui ho partecipato, mi riservo di descrivere queste esperienze in un momento diverso.

In questo spazio virtuale voglio solo accendere un po’ di curiosità in chi, come me fino a pochi anni fa era totalmente all’oscuro ed alquanto scettico riguardo agli aspetti più profondi di quella creazione della nostra mente che amiamo chiamare realtà.

Ma che io adoro chiamare illusione.

Una illusione sorprendente.

Al termine della conversazione con i miei estemporanei compagni di viaggio, adagiato sul letto, mi soffermo a riflettere.

Avrò fatto bene a raccontare in termini così entusiastici la mia esperienza con l’abuelita?

In fin dei conti credo di sì.

Non sarei chi sono in questo momento senza quelle cerimonie a cui ho partecipato ma allo stesso tempo credo che esse siano state soltanto un mezzo, stupendo, divertente e per certi versi magico, per darmi un’idea un po’ più chiara di chi sono veramente.

Che è molto differente dall’illusoria maniera in cui appaio all’occhio di un qualunque osservatore esterno.

Il fluire del torrente è la perfetta sinfonia capace di cullare la mia anima fino a raggiungere un sonno ristoratore; ma anche la metafora più evidente di una vita che scorre imperterrita e che lentamente scava un solco nella dura roccia della ordinaria realtà.

O della straordinaria illusione.

La ricerca della felicità

Dove dovrebbe iniziare la ricerca della felicità?

Dalla nascita?

Da un evento che ti cambia radicalmente la vita?

Dalla maturità reale e vera di una persona, ammesso che essa avvenga in tempi sufficientemente ristretti?

Quel giorno di gennaio avevo 32 anni ed un gran bel lavoro in una multinazionale tra le più grandi del mondo. Ma ero profondamente infelice. Così triste da non riuscire a guardarmi allo specchio la mattina prima di andare al lavoro senza farmi schifo. Ribrezzo. Odio misto al rancore per la mancanza di coraggio che mi impediva di andarmene da lì, nonostante il buonuscita e le finanze casalinghe a posto.

Odiavo ciò che facevo e come lo facevo. Odiavo il laisse faire e la tristezza con cui le persone con le quali lavoravo non riuscivano ad andare oltre al fatto che quello che stessimo compiendo non era solo dovere, ma un atto di distruzione nei confronti del pianeta Terra. Mentre la policy aziendale diceva “la ricerca di oggi formerà lo splendido futuro di un mondo migliore in cui robot e uomini saranno in equilibrio col pianeta”

Rileggevo spesso quelle righe perché, guardandomi attorno vedevo solo gente intenta a portarsi a casa lo stipendio e a fottersene del futuro migliore per i loro figli e nipoti. Che schifo mi facevano. Che schifo mi fanno ancora.

C’ho messo un anno e mezzo a convincere me e la mia famiglia che lasciare quel porto sicuro, quel lavoro da pensionato felice, sarebbe stata la più grande scommessa e la migliore scelta della mia vita.

Il più grande salto nel vuoto ma al contempo la migliore delle scelte, come vedrete seguendo la mia storia.

Mi presento, sono Raphael, ho 40 anni e credo di aver raggiunto un buon grado di felicità.

Ma vi voglio tediare ancora un pochino raccontandovi la mia storia per capire quanto ci ho messo ad essere felice.

Per coloro che credono che una persona è definibile da ciò che fa o dai titoli – nobiliari o cartacei – ecco la mia descrizione:

sono un ingegnere chimico di quasi 40 anni, ho lavorato in alcuni paesi del mondo per un’azienda petrolifera fino a circa 7 anni fa; nel frattempo mi ero preso pure la briga di studiare un Master in Business & Administration tra Londra e Bangkok, quando avevo 26 anni.

Ecco, questa è la descrizione che NON mi piace o che mi definisce solo a livello curricolare.

Quella che mi piace è questa.

Sono un camminante. Camminando un cammino di stelle. E le luci che incontro sono le anime che conosco sul mio cammino e che ammiro attraverso il percorso della mia via.

Camminando e danzando insieme a loro ho imparato i mille modi di vivere della gente e di ognuno di loro ho un ricordo indelebile che va al di là della percezione dei 5 sensi umani.

Cammino sul sentiero della vita. Ogni giorno mi avvicino sempre di più a chi sono, lasciandomi alle spalle quel “me” che qualcuno avrebbe voluto che fossi.

Chi è, o meglio, chi sono, quel o quei qualcuno? La società occidentale, il pensiero isterico collettivo, i genitori, le aspettative del mondo pazzoide in cui noi tutti viviamo.

Sono in cerca della connessione con la mia anima, con la Verità, con l’Amore, con Dio, con me stesso.

Ho girato per questo strano Pianeta in lungo e in largo, ho vissuto in posti che la maggior parte di voi considererebbe assurdi, ho lavorato (poco) e studiato (molto), ho parlato tanto ed ascoltato forse meno di quello che avrei dovuto, ho conosciuto un’infinità di gente.

Per poi capire che, chiunque guardassi negli occhi, chiunque conoscessi, era il giusto riflesso di chi ero in quell’istante della mia esistenza.

Un riflesso della mia anima, una creazione perfetta del film della mia vita.

Ho amato ogni fotogramma di quel film. Dal più amaro al più felice. Dal più vivido al più sbiadito.

Perchè, in fin dei conti, la vita è amara o dolce a seconda dello stato d’animo con cui la si guarda.

So poco della vita, quel poco che si sa a 40 anni, però quel poco che so ho voglia di condividerlo con chi avrà il desiderio di leggermi.

Ho un sacco di episodi divertenti da raccontare che voglio raccontare a chiunque abbia voglia di leggerli.

Non mi importa se sarete d’accordo o meno riguardo a quello che scrivo e alle conclusioni che ne trarrò. Non cerco conferme o smentite ai miei pensieri. Non voglio piacere in particolare a nessuno di coloro che mi leggeranno.

Voglio solo dire la mia, con riguardo e stima per l’opinione altrui.

PS: Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

Black Mamba

Congo. Foresta equatoriale africana. Dove il sole è sempre allo zenit.

Dove l’aria è ferma perché le forze di Coriolis lasciano che i nuvoloni grigi, carichi di pioggia, stanzino sopra la tua testa.

Lì, in quella foresta, vive il Black Mamba, anche soprannominato, affettuosamente, il serpente “dei 5 passi”.

Che non sono altro che il numero massimo di passi che ti restano dopo il suo letale morso.

KOBE

Kobe era affettuosamente soprannominato, dai suoi avversari, il black mamba.

Perché non lasciava loro la possibilità di fare più di 5 passi con il pallone in mano.

Li asfissiava con la sua difesa da campione. Li distruggeva con il suo sguardo glaciale. Li sfidava ad entrare nel suo territorio, la sua metà campo, per poi portarli a morire dopo soli 5 passi.

Kobe era questo.

Ma Kobe era molto di più. Un ragazzo sorridente, solare, puro.

Unico.

Come unici e rari sono coloro che possono permettersi di essere campioni con il sorriso sulle labbra.

Kobe era giovane.

Kobe aveva quattro figli e una di loro stava volando con lui ieri.

Volando alto, perché suo padre la portava a giocare in elicottero.

Se lo poteva permettere, il Mamba.

Era un figo.

Di quelli che: “ce ne sono pochi in giro come lui”, come diranno oggi al bar sport di qualche paesetto

Kobe era un amico.

Kobe non c’è più e io, questa notte, non ho dormito per il dolore.

Addio Black Mamba, in soli 41 anni hai fatto cose che alcuni non si sognerebbero di fare in 100 vite.

Grazie per essere stato un esempio di vita.

Con amore, tuo

Marzio

Lettere all’amata

La sensazione della carta, l’odore della colla.

Sono cresciuto tra i libri.

L’odore della carta e dell’inchiostro di libri stampati in epoche che non ho mai vissuto, ma che tramite essi mi si sono paventate, è uno di quei ricordi che suscitano in me un sorriso.

Un sorriso perché i libri sono stati miei compagni di vita in svariati momenti.

Ho letto per passione, per studio, per solitudine, per svago.

Libri scritti con caratteri minuscoli e linee fitte in cui mi s’incrociavano gli occhi o con infiniti spazi bianchi tra le righe.

Spazi in cui la mia fantasia volava, esulandomi dalla realtà esterna.

Una realtà non percepita da altri e proprio per questo un mondo che sentivo solo mio.

La lettura mi aiuta a superare i momenti di sconforto, nei quali la lontananza dagli affetti a me più cari pesa come un macigno insostenibile.

Non solo con la vista, ma anche con il tatto e l’olfatto, assaporo un libro che diventa un amico con cui potermi creare una via di fuga dalla realtà forzatamente percepita.

Il tic-tac della tastiera sembra come il metronomo dei miei pensieri, che invariabilmente fluiscono velocemente o lentamente a seconda che io scriva con trascinamento e ardore o in modo riflessivo e meditativo.

Tic-tac che scandiscono una frequenza su cui spero di riuscire a far vibrare la tua mente, con queste righe che stai leggendo.

In fondo in fondo siamo fatti di vibrazioni.

E quindi un bacio può arrivare anche attraverso le righe di una lettera.

Camminando per Roma

Roma è la città più magica di tutto il mondo. Camminare per le sue strade pavimentate di ciotolato e perdersi tra un vicolo e l’altro per poi ritrovarsi in un piccolo spiazzo su cui si affaccia una chiesa di cui ignoravi l’esistenza.

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La magia di Roma è ancora più incantevole all’alba. Quando è deserta e si può godere dello spettacolo del Pantheon vuoto o dei fori dentro i quali si aggirano solo i gatti e i gabbiani.

Cammino. Camminare mi aiuta a pensare, a riflettere, a lasciar andare i miei pensieri per far loro formare nuove idee, nuovi progetti, nuove fantasie. Molte di di queste fantasie rimarranno tali. E’ il triste destino delle fantasie di una mente sognatrice come la mia. Cento ne pensa e una, qualcuna, ne fa.

Roma mi accompagna nel mio vagare tra i miei stessi pensieri. Mi distrae con le sue bellezze architettoniche, con i suoi scorci incantati, con i suoi panorami da cartolina.

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Roma mi fa sentire a casa.

Del resto il mio nome romano, da imperatore, si sente a suo agio nella capitale dell’Impero.

Roma mi ha aiutato. Sono tornato per godere della compagnia di una donna che avrei desiderato amare ma che è troppo distante dall’idea di compagna che può starmi accanto.

Roma mi ha aiutato a liberarmi da un peso emotivo.

Roma mi ha aiutato a capire che ho necessità di pensare in grande, di desiderare una vita piena di emozioni, intensa, vissuta con il piede costantemente pigiato sull’acceleratore, rischiando in ogni momento.

Una vita piena di emozioni. Una vita riempita di adrenalina. Fuori dagli schemi. Eccessiva. Incomprensibile ai più. Una vita alla ricerca delle emozioni forti, delle sfide da vincere.

Ma anche una vita che può rallentare e fermarsi a contemplare con infinito stupore la grandiosità dei Fori Imperiali visti dalla balconata del Vittoriano.

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Roma mi infonde un senso di grandezza e di potenza come nessun’altro luogo al mondo.

Roma mi fa venire voglia di andare a conquistare quel mondo che ho vissuto.

Roma mi fa rinascere.

Sono tornato.

E adesso ho la sensazione che inizio proprio a divertirmi.

 

Il coraggio di farlo

Guido.

Siamo sul nascere di un nuovo giorno. Sto percorrendo la solita strada per recarmi al lavoro.

È una mattina come le altre, i pensieri che ho per la testa già mi permettono di chiarirmi i dubbi sulla fattibilità di un progetto ambizioso che abbiamo al lavoro.

Riorganizzare l’azienda! Che delirio! Faremmo prima a rifondarla da capo.

Guardo il sole sorgere. Un sole che mi abbaglia, che mi acceca.

Un sole che mi illumina.

Rifondare l’azienda da capo sarebbe più semplice. Ma è anche impossibile. Non si può fermare un meccanismo così complesso senza rovinare qualche ingranaggio.
Mi sento affranto. Sopraffatto.

Credo che le mie capacità non siano sufficienti; ma soprattutto credo che non ci sia la reale volontà di cambiare qualcosa.

Ci si riempie la bocca di parole; ma quando si tratta di agire si rimane bloccati perché non si conoscono i veri problemi e, soprattutto, non si ha il coraggio nè la volontà di affrontarli di petto.

 

Il sole continua ad accecarmi.

Ad illuminarmi.

 

Sono solo con i miei pensieri. Come spesso capita. Come spesso è capitato.

 

Sono solo.

Mi sento solo.

 

La solitudine è una mia vecchia compagna di vita.

Sono cresciuto sentendomi solo, circondato da affetti mal riposti, da persone poco propense a guardarsi dentro e molto prone a scaricare sul prossimo le loro debolezze, i loro dolori, le loro paure.

 

Il sole mi illumina.

 

Capisco che ho paura.

 

Ho paura di cambiare perché ho paura di affrontare il mio dolore e la mia sofferenza. Non le voglio vedere.

Desidero piuttosto nascondermi dietro ad un sorriso di circostanza, ad un atteggiamento spavaldo.

Raccolgo sfide all’esterno per non sfidare i mostri che ho all’interno di me stesso. Quegli stessi mostri che combatto fuori di me, siano essi il mio capo con mentalità retrograda piuttosto che la mia donna piena di problemi irrisolti, stanno tutti anche dentro di me.

Preferisco, codardamente, osservarli al di fuori, notarli negli altri, piuttosto che riconoscerli dentro di me.

 

Che libreria piena di sapere.

Peccato che la mia vista non perfetta non mi permetta di mettere a fuoco le piccole lettere che compongono i titoli di quei libri così interessanti.

“Fisica” .

è l’unico titolo che riesco a distinguere tra i tanti. Un titolo che mi riporta indietro nel tempo, ai miei venti anni, alle mie giornate trascorse a studiare e a sudare su libri per cui nutrivo relativamente scarso interesse.

Il mio sguardo si distrae su quella infinitesima distesa dello scibile umano che è la libreria di Mauro.

Mauro ha una voce profonda, segnata dagli anni.

Mauro mi ha appena sferzato con le sue parole.

Mi ha zittito.

Mi ha fatto riflettere su uno di quei mostri che ho dentro e che non ho mai voluto affrontare.

Mauro, con le sue parole, e i suoi silenzi mi sta portando per mano esattamente di fronte a loro.

Non li vedo ancora.

Ho paura di chiudere gli occhi e di ritrovarmi davanti immagini che ho rimosso. Momenti che ho cancellato grazie al meccanismo di autoprotezione che il nostro cervello utilizza per rimuovere i momenti più terrificanti della tua vita.

 

Ok, lo ammetto. Non ho visto gente morire. Non ho mai sofferto la fame.

 

Mi è solo mancato l’amore, l’affetto, la comprensione.

E quando mi mancavano, mi rifugiavo nei libri.
Quegli stessi libri che osservo ora mentre sto facendo parlare la bocca, senza pensarci su troppo. O almeno ci sto provando.

 

Mi sento piccolo, indifeso.

Impaurito.

Ma so che c’è Mauro a tenermi la mano. A portarmi vicino al mostro. A riconoscerlo. A guardarlo negli occhi per capire che è umano tanto quanto lo sono io. Ad invitarmi ad accarezzarlo senza paura, ad affrontarlo, ad accettarlo e ad accoglierlo come una parte di me.

 

Ho avuto il coraggio di farlo.

Il coraggio di guardarmi dentro osservando una libreria, disteso su un lettino, guardando sempre lo stesso punto per vedermi riflesso e non avere più paura di ciò che vedo.

E ho avuto il coraggio di condividerlo.

Perché mi dà forza sapere che chi leggerà queste parole sarà testimone di una parte fondamentale della mia vita. Chi mi vuole bene apprezzerà questa condivisione.

E forse, come spero, imparerà qualcosa.

 

Ho avuto il coraggio di farlo.

E il coraggio di dirlo.

Ora mi mancano solo le parole per raccontarlo.

Arriveranno presto.

 

Verso l’Asia, dieci anni dopo

Eccomi qui, seduto su un treno, prima tappa di avvicinamento alla mia amata Thailandia.

Sono passati esattamente dieci anni dalla prima volta che ci sono andato.

Quella volta il viaggio in Asia era il primo che compivo al di fuori del continente europeo. Mi stavano attendendo 6 mesi di vita che avrebbero cambiato totalmente il mio modo di essere, accendendo in me l’irrefrenabile voglia di viaggiare.

Dopo aver girato in lungo e in largo la Thailandia, aver visitato Vietnam, Hong Kong e Macao, ritornai in Europa con il pressante desiderio di visitare il più possibile quel fantastico mondo di cui il sud est asiatico e’ una regione fantastica e magica.

A distanza di dieci anni da quel primo viaggio verso Bangkok, in cui non sapevo che cosa aspettarmi, posso dire di aver visitato tutti i continenti, di aver vissuto in Africa e in Messico per abbastanza tempo da potermi ritenere un grande conoscitore di quei luoghi.  Insomma, di essere soddisfatto per aver portato a termine quel desiderio di scoperta ed esplorazione che era sbocciato nella mia anima quando percorrevo distanze infinite nella penisola thailandese accompagnato solo da uno zaino in spalla.
Eppure l’emozione che provo per una partenza è sempre la stessa. La fremente attesa dei giorni precedenti la partenza, riempiti dai preparativi e dai saluti agli amici più cari. La sensazione di vuoto e di distacco che provo l’ultima notte che dormo nel letto di casa mia, pensando che passerà  un lungo tempo prima di farlo nuovamente.

E poi c’è  il momento in cui inizia il viaggio. Quel momento in cui resto da solo: davanti a me le lunghe ore di transizione in quel limbo in cui mi trovo da quando esco da casa fino a quando scenderò dall’aereo alla destinazione finale.

In questo periodo di limbo, i miei pensieri si liberano di tutto. 

Come se davanti a me ci fosse un foglio di carta intonso, sono pronto a scrivere un altro capitolo della mia vita. 

Un capitolo successivo, frutto delle esperienze di quelli precedenti ma al contempo diverso. Nuovo. Eccitante.

Come piace a me. 

Cambiare vita, nuovamente, per l’ennesima volta. 

Per poi poterla ricordare e raccontare, sapendo di poter affermare di aver vissuto veramente.

Un altro capitolo della mia strana vita, un altro episodio del mio film.

My first Temazcal

Questo è un gran regalo del mio caro amico Nicola Pozzetto

“Il mio primo temazcal” da lui tradotto magistralmente.

E’ stupendo vedere come le mie parole in italiano siano fatte risuonare anche meglio in inglese, grazie a Nicola.

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Clara is back and our Mexican adventure begins.

I don’t know what to expect from the shamanic spirituality; my curiosity to discover the meaning of the ceremonies, to live what I heard only through the words of my beloved Clara, is enormous.

The first opportunity we found is to participate in a Temazcal, a “sweat lodge”. In Central American Tradition, this is a very common and charming ceremony.

It is a full moon day; the energy you feel is much higher than it might be on other occasions.

I’m the only man at the ceremony. Unfortunately not many males have a high sense of spirituality as women have and male participation at these ceremonies is very limited. We sit around the campfire managed by el hombre de fuego, while Carmela, the shaman who runs the ceremony, explains us a few things about how it will take place.

Dried tobacco leaves are given to everyone of us,we will have to slowly crumble them in our hands, thinking about the intention that we want to work on during this temazcal, about energetic and psychological blocks we want to clear, desires we’d like be fulfilled, prayers that we want to do for us or for those we care about.

After having crumbled the tobacco, one at a time we put ourselves in front of the fire.

With the hand we draw in the air the four cardinal directions, then a circle to the right symbolizing our male side and one to the left for our feminine side; at the end we throw the tobacco in the bonfire so that our demands will become an integral part of the ceremony on which we can work on.

In the bonfire, under the burning wood, were placed the volcanic stones that will be then entered one by one in the hut and that are becoming hot. Those are lava stones directly coming from the center of the Earth therefore bearers of knowledge and energy of our Mother Earth, Pachamama.

Each one of us, one at a time, plays a song with a drum to incite the fire to burn and heat the stones until they are ready for the ceremony and charged with the vibrational energy of all of us.

Carmela decided that I have to position myself in the hut on the opposite side compared to her, to balance the energy within the temazcal, being me the only man present. And I will have the task of working on the male energy, of all men, focusing to release the negativity of patriarchal control and male control over women. A big responsibility for my first temazcal, no doubt about it.

I think I’m used to these strange tasks.

The hut is small, narrow, built with thin wooden poles and covered on the outside by woolen blankets, that will prevent to let out the heat and steam that will emanate when the water will be thrown on the incandescent rocks. One by one the women in front of me enter the hut crouching down, kissing the ground and asking permission to enter.

It is my turn. I step into the hut and put myself in the opposite side of the little door, with the knees huddled up to avoid putting the legs into the hole in which the stones will be placed. When all participants are sitting in a circle in the temazcal, the shaman asks to the hombre de fuego to let the first stone in. With a pitchfork, the assistant comes to the door, shouting, “Abuelita!” a spanish term of endearment meaning “grandma”.

 

It’s form of respect to name each of the stones, to reiterate the concept that it is the mother of our biological mother because it comes from the depths of the Earth.

 

We, from the inside, reply “Bienvenida Abuelita!” (Welcome Grandma) and we sing a welcome song.

Carmela, using rudimentary wooden pitchforks, gently puts the stone in the hole so it can fill the right amount of space. Seven rocks come in from the little door, all of them following the described ritual. When the door is closed with a blanket, begin the ritualistic chants directed by Carmela who keeps pouring water on the stones, making the cabin some sort of sauna.

I close my eyes and concentrate on the melody, the vibration transmitted by the music, feeling that the warmth and the participation of all the people present at the ceremony are one very strong stimulus to release these energy and psychological blocks on which I decided to work.

After three songs, Carmela decided it was time to open the door again to let other stones in. We shout all together “Puerta!” and the blanket is lifted from the outside. The hombre de fuego hands to the shaman the first of the next seven stones that we salute like we did earlier.

This time, each stone is rubbed with sage leaves, filling the air inside with their fragrance. When the blanket isolates us from the outside again and as a result of pouring water on the stones, the heat starts to get intense and it is really hard to breathe, forget about singing!

I feel my body dumping a lot of negativity, I hardly resist heat, I abundantly sweat and start to suffer to remain inside the hut. I think it is challenging to resist, being unable to lower to the the ground to avoid the hot steam that accumulates upwards.

The door opens and some of the heat goes out, but seven more stones must enter and I understand that the heat will be more intense. This time not everyone can sing the song of welcome to the “abuelitas”; we see that some of us already is exhausted. Closing the third door and pouring the water, make the atmosphere suffocating. I cannot sing, but I try to mentally follow the pace of the drums.

I wheeze and I feel I am dumping a lot of negative energy. I feel dizzy, I feel I am about to collapse. I have to resist, I know I can do it and that I must not have fear of being hurt.

My body is exhausted, the heat is suffocating me . When the third door opens I ask permission to go outside.

I crouch to crawl through the narrow and little door. I salute the outside fresh air with a remarkable relief. I slowly stand up, trying not to fall over the still burning bonfire. I don’t have my glasses and I have to get to the shower on the other side of the garden.

The falling water is so cool that I wake up quickly. Feeling the fresh water drops tapping on my body is an amazing relief. I stay a full five minutes under this refreshing rain, trying to recover from the heat stroke I think I suffered. I search water to drink and I gulp down a liter all in one breath.

 

I feel somewhat better, but I still feel dizzy.

I strive to compose myself and join the circle of people who participated the Temazcal in front of the bonfire. Carmela says the last words of farewell and some women, in turn, share their experience.

I cannot even listen.

I think that to really understand the deep meaning of this ceremony, I’ll have to make some more.

Sull’amore, a trent’anni

Qualche giorno fa sono stato invitato ad un compleanno di una ragazza che ha compiuto 30 anni.

E’ sempre emozionante cambiare la prima cifra dell’età.

Ora che mi sto lentamente avvicinando ai 35 ho ripensato al luglio del 2009, quando lavoravo nel deserto e mi stavo avvicinando a questa soglia.

Ed ho ritrovato quello che avevo scritto

 

30

 

I miei primi trenta

Quando cambia la prima cifra dell’età, si ritiene che sia un momento particolare della propria vita.

Un momento per guardarsi indietro, ma anche per guardare in avanti.

Alla festa di compleanno in cui compivo dieci anni, mi ricordo che mia madre mi disse che avevo davanti a me il decennio più importante della mia vita, in cui avrei fatto molte scelte, avrei superato l’adolescenza, avrei scelto una direzione per la mia vita.

In parte aveva ragione.

Quando compii vent’anni ero nel pieno delle mie forze, della mia giovinezza, e sentivo di aver concluso un decennio molto importante e allo stesso momento divertente della mia esistenza. Forse non ero conscio di che decennio mi avrebbe atteso da lì a poco.

E di come sarebbe stato difficile trovare degli aggettivi adatti a descriverlo.

Non ho ancora trent’anni, ma ci sono quasi.

E credo di poter dire di aver vissuto molto intensamente gli ultimi dieci anni della mia vita.

Il 7 settembre del 1999 non avrei neanche lontanamente immaginato che mi sarei messo a scrivere queste righe seduto davanti ad una finestra che si affaccia sull’infinità del deserto del Sahara.

E ancor meno avrei pensato di poter raccontare e ricordare di aver vissuto a Trieste, a Udine, a Londra, a Bangkok, a Milano, a Piacenza, nella giungla del Congo e nel deserto della Tunisia.

Di saper parlare fluentemente l’inglese, di arrangiarmi con il francese, di voler imparare lo spagnolo e di aver perso l’accento gradese.

Non avrei mai detto che sarei diventato un instancabile giramondo, una sorta di vagabondo senza dimora, un irrequieto esploratore di nuove culture, in cerca della luce che risplende dietro gli occhi di chiunque abbia la fortuna di incontrare lungo il mio cammino.

Forse immaginavo che mi sarei posto molte domande sul significato della vita, per arrivare alla conclusione che è meglio non porsene troppe perchè è probabile che non ci abbia capito molto.

Non sapevo che avrei tentato di imparare ad amare con voglia sempre crescente.

Che avrei usato il verbo amare coscientemente ma anche a sproposito, che avrei gioito e sofferto, fatto gioire e fatto soffrire in nome dell’amore, fino a comprendere che bisogna imparare a non odiare sé stessi prima di potersi avvicinare al vero significato della parola amore.

In questi ultimi dieci anni ho conosciuto centinaia, fors’anche migliaia di persone con cui ho comunicato in parecchie lingue; anche i gesti sono una lingua.

Molte persone sono entrate nella mia vita per lasciarci un segno indelebile e per accompagnarmi nei momenti più belli e in quelli più brutti.

Alcune sono uscite di scena per sempre, facendomi soffrire, piangere e lasciandomi un vuoto che a volte è stato difficile da colmare.

Ci sono stati casi in cui ho imparato più da un incontro fortuito con qualcuno con cui ho parlato solo per pochi minuti che da persone che ho frequentato per lungo tempo.

Ad ogni modo, tutti coloro che sono apparsi nella mia vita, che hanno fatto parte di questo strano sogno così reale, mi hanno insegnato qualcosa su me stesso.

Mi hanno aiutato a diventare quello che sono ora.

A tutti questi angeli che hanno condiviso con me questi miei primi trent’anni, vorrei dire grazie.

Grazie per aver fatto parte della mia esistenza.

Grazie per avermi insegnato molte cose, tra cui avermi aiutato a comprendere, in parte, il significato della vita.

Spero proprio di poter continuare ad essere accompagnato sulla mia strada da questi angeli e di aver la fortuna di incontrarne altri che mi permettano di poter imparare, per tutto il resto del tempo che mi resta da vivere in questo strano sogno che è la vita, come si fa ad amare.

Il basket a OZ

Dal nostro inviato a OZ

Dopo che venerdì sera lo “stadio olimpico polifunzionale” di OZ era stato inaugurato da una scialba amichevole tra locali, oggi uno scarno pubblico costituito da un unico annoiato spettatore in ciabatte, ha potuto assistere ad un avvincente partita di basket 3 contro 3 tra una agguerritissima squadra di mostri urlanti e parecchio maleodoranti ed una selezione italo-peruana.

L’attesa per il match è cresciuta nel corso della giornata odierna, tanto che al riscaldamento dell’attesissimo pivot Maurice McCandice, della selezione italo-sudamericana, proveniente dall’isola del Sole, hanno assistito tutti i più importanti personaggi presenti a OZ, tra cui lo spaventapasseri, l’uomo di latta e Dorothy.

 

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I disordini creatisi durante l’allenamento, con folla di mosche ronzanti e un gruppo di pecore che stavano per tosarsi a morsi, ha costretto gli organizzatori a imporre la chiusura delle porte dello stadio.

Un drappello di scarafaggi ha invano tentato una timida invasione di campo, venendo pero’ calpestato con estrema ferocia dal commissario Winchester.

L’assenza di belati e muggiti ha creato una strana atmosfera; sembrava che le due squadre giocassero nel deserto.

Il campo, non in perfette condizioni, non ha agevolato i giocatori.

Far rimbalzare la palla sulla sabbia ha creato non pochi problemi, costringendo entrambe le squadre ad adottare una tattica del tutto particolare: palleggiare il meno possibile.

Ma passiamo alla cronaca.

La selezione di mostri parte molto carica e grazie alla sua fisicità – in tribuna stampa ci si domandava se uno dei giocatori fosse un lupo mannaro, vista la serata di luna piena – e velocità, inizia alla grande, imponendo un ritmo inatteso alla partita.

McCandice e compagni partono un po’ arrugginiti e tentano di perfezionare una serie di schemi di attacco, nonchè di organizzare la difesa in modo tale da essere efficaci contro la maggiore fisicità e velocità degli avversari.

L’impegno profuso dagli italo-peruani non paga. I mostri si lanciano agguerriti su ogni pallone, sembrano sbucare da ovunque, e il risultato dà loro ragione.

Si va al riposo sul 29-21.

Un cammello, vagamente somigliante al rimpianto coach Chuck Daly, muggisce qualche consiglio prezioso: più difesa, meno virtuosismi in attacco per tentare la rimonta.

Spronati dall’imponenza della sua gobba e sospinti dalla sua coda che li ricaccia in campo come mosche, i 3 della italo-sudamericana rientrano in campo decisi a vendere cara la pelle.

La guardia Pietro Pistola sembra trasformarsi in John Stockton. Penetra, sfrutta i blocchi di McCandice che improvvisamente si muove con la stessa potenza di Karl Malone e segna a ripetizione dalla lunga distanza. Ricardo Do Santos Ribeiro Navidad Feliz y Sonrisa Hermosa de el Tercer Barrio de Lima sobre La Segunda Calle Justo Arriba de la Tienda de Pedro el Cansado detto Lulù, per ovvii motivi di spazio – sulla canotta aveva scritto RDSRNFySHdeTBdBsLSCJAdlTdPC 37, che sembrava il suo codice fiscale – si impegna con tutte le sue forze, attacca con decisione e segna canestri decisivi che portano la selezione italo-peruana alla rimonta fino al 29 pari.

Gli scarafaggi superstiti, eccitati e quasi svolazzanti, ritentano un’infruttuosa invasione di campo, venendo questa volta calpestati dalla foga dei giocatori.

La selezione mostruosa sembra stremata, non riesce più a segnare, perde un po’ di lucidità e inizia ad arrabbiarsi. Grida sempre più, si sforza a lottare sotto canestro, ma McCandice sembra Ganesh, ha braccia ovunque per poter aggrappare tutti i palloni che cadono a rimbalzo.

Lo sforzo dei mostri per vincere la partita è encomiabile.

Si lotta punto a punto, finchè un paio di penetrazioni del mostro Puzzone mettono la parola fine alla sfida.

39-37 per gli strani personaggi e tutti sotto la doccia.

Per qualcuno la prima da un paio di settimane a questa parte.